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MICROMEGA
Lettera
di fine anno sulla difficile arte di discutere di temi “divisivi”
tra femministe
Tutti
i nodi critici del dibattito femminista nel bilancio di fine anno di
una femminista storica.
30
dicembre 2021
E
che lettera di fine anno sia. La fine non di un anno, ma di quasi due
di tremenda, ineguagliabile crisi pandemica che ogni essere umano di
età superiore ai quattro anni serberà per sempre come snodo
esistenziale. Quasi due anni dai quali avremmo dovuto imparare a
riposizionare le priorità: comprendendo che la sanità pubblica è
centrale per preservare vite; che la riduzione, ragionevole e
momentanea, delle libertà individuali per motivi sanitari è
sinonimo di responsabilità collettiva; che l’interconnessione tra
gli esseri umani è questione di corpi e non di megabyte.
Se
non capiamo adesso tutto questo e non mettiamo al primo posto la cura
del mondo non ci sarà una prossima volta. Detto questo ecco a chi
vorrei indirizzare brevi considerazioni, pensieri e alcune domande:
le mie prime interlocutrici sono le donne, e le femministe in
particolare. Comincio con chi insiste a modificare la
parola femminismo,
come se da sola, priva di suffisso, o al singolare, o senza
specifiche aggiuntive fosse incompleta e inadeguata. Perché non si
parla così spesso di socialismi, comunismi, liberalismi, ma è solo
il femminismo che viene nominato plurale? Posto che ovviamente si è
libere di pluralizzare a piacere, domando e mi domando: come mai la
visione femminista da sola appaia, per talune, obsoleta, e da qualche
tempo vi si anteponga la parola trans,
o si trovi necessario aggiungere intersezionale?
Ho
il dubbio, (e spero di sbagliare), che in noi femministe, in quanto
donne, (persino le più salde e avvertite), scatti un atavico
meccanismo di oblatività compulsiva, che nel caso del
termine transfemminismo intenda
modificare, non sono certa se in modo davvero inclusivo quanto
piuttosto deviante, un percorso politico ancora molto lungo e
bisognoso di focalizzazione.
Parimenti
la specifica intersezionale mi
sembra che faccia rientrare dalla finestra la dominanza del
patriarcato di sinistra, che tollera il femminismo solo se non
bianco, assai relativista e piuttosto antioccidentale. La filosofa
Luce Irigaray a fine Novecento affermò: «È il rapporto tra donne e
uomini la questione che dobbiamo pensare nel prossimo secolo. Non
basta guardare insieme nella stessa direzione, occorre farlo in un
modo che non abolisca le differenze, ma le renda alleate. Se andiamo
per la strada dell’abolizione della differenza sessuale, non ci
sarà un futuro per l’umanità».
La
ben più giovane scrittrice Chimamanda Ngozi Adichie ha intitolato di
recente uno dei suoi più noti pamplet Dovremmo
essere tutti femministi.
Aggiungo: fatevi un giretto nelle scuole italiane, dove svolgo
formazione e incontri sulla violenza maschile contro le donne e il
sessismo da oltre 20 anni. È un buon test per capire come ci sia un
disperato bisogno di ragionare di femminismo, differenza sessuale e
diritti delle donne (che sono universali e dirlo suscita fastidio e
atteggiamenti negazionisti): negli ultimi cinque mi è capitato, di
continuo, di ascoltare una quantità inquietante di pregiudizi e
stereotipi sessisti inculcati in ragazzi e ragazze con meno di 19
anni come neppure negli anni Sessanta.
Ho
poi parole dubbiose per chi usa la locuzione “libertà di
scelta”. Scelta è
parola importante e densa, ma sembra essere diventata la nuova,
modernissima religione neoliberista professata però da chi sostiene
di essere antiliberista, e trasforma ogni obiezione, o dubbio, sulla
libera scelta in fobia, una
pratica sempre più diffusa per bloccare ogni scambio, conflitto e
interlocuzione.
Se,
ad esempio, critichi l’uso politico delle religioni e la loro
ingerenza nello spazio pubblico va tutto bene fino a che non tocchi
l’islam. Se provi a discutere criticamente di velo, hijab o
burka diventi islamofobica.
Uno
schiaffo in pieno volto al lavoro che da anni donne provenienti da
culture e Paesi a maggioranza musulmana svolgono contro il
fondamentalismo, il reato di blasfemia, per la laicità e la libertà
di espressione come Maryam
Namazie, Marieme
Helie Lucas, Nadia
El Fani,
solo per citarne alcune, lavoro sintetizzato in modo
straordinariamente femminista, a partire dal titolo, nel
libro Anatomia
dell’oppressione e
negli incontri internazionali della Secular
Conference.
Rimando,
a chi interessa l’argomento, alla lunga
riflessione di Nova Daban,
riportata dal sito secularism.org del cui scritto mi pare importante
questo passaggio: «Nonostante il termine sia usato per descrivere
pregiudizi e atteggiamenti di odio verso i musulmani è stato anche
usato per proteggere l’islam dalle critiche, persino ostacolando
gli sforzi per sfidare l’estremismo. Il concetto
di islamofobia rischia
di creare un codice blasfemo nemico della libertà di parola e di una
democrazia liberale laica. Non c’è dubbio sulla necessità di
affrontare il fanatismo anti-musulmano, ma tentare di farlo a spese
della libertà di espressione è controproducente Il
termine islamofobia fornisce
agli islamisti un’arma per attaccare chiunque critichi tutto ciò
che riguarda l’islam, dai testi religiosi alla misoginia e persino
al terrorismo perpetrato in suo nome. Un esempio molto recente è
quello di una scuola canadese che ha annullato un evento con Nadia
Murad perché “favorirebbe l’islamofobia”. Nadia Murad, vittima
yazida dell’Isis, è stata ridotta in schiavitù e violentata dai
terroristi islamisti durante il loro assalto in Iraq e Siria.
Descrive l’orrore che ha dovuto affrontare per mano della brutalità
dello Stato islamico in un libro intitolato The
Last Girl.
Per molti musulmani non c’è niente di più offensivo dei
terroristi che tentano di usare la loro religione e distruggerne la
reputazione. Allora perché è islamofobo parlare
di terrorismo, schiavitù e stupro? Fino a che punto
definiamo islamofobe le
critiche alle pratiche religiose e culturali antiche e regressive?
Paesi a maggioranza musulmana come Siria, Algeria e Kazakistan hanno
vietato i veli integrali (niqab e burqa) in molti contesti perché
compromettono la sicurezza e simboleggiano la discriminazione contro
le donne. Suggerire lo stesso nel Regno Unito porta automaticamente
ad accuse di islamofobia.
Quindi chiamiamo i musulmani che sostengono tali mosse islamofobici o
riflettiamo sul motivo per cui questi dibattiti si svolgono anche
nelle società musulmane?».
Altro
versante nel quale la religione della scelta ha
rovesciato il senso della liberazione dalle catene imposte dal
capitalismo prima, e dal neoliberismo poi, è quello della libertà
di vendersi (e conseguentemente di comprare i corpi, specialmente e
maggioritariamente quelli di donne). Parliamo di prostituzione, che
nell’accezione della libera scelta diventa sex
work,
una visione molto accreditata anche dal movimento dei Mra, Men’s
righs activism,
che sono in prima fila per la legalizzazione dei bordelli in tutto il
mondo. Ne parlammo anche su MicroMega,
in un denso numero speciale a fine 2020 dedicato al tema della
prostituzione, nel quale ci si confrontò anche tra femministe.
Dal
mio punto di vista, l’ombra scesa sulla parola libertà, proprio
dopo il 2001, anno di snodo della calata massiccia del neoliberismo
globale, ha a che fare con la contaminazione inconscia
dell’aggressione neoliberista (notare come liberismo abbia la
stessa radice di libertà) sulle coscienze, individuali e
collettive. Senza la responsabilità, che agisce come limite della
libertà individuale perché la mette in relazione con le
conseguenze ampie che ogni scelta individuale provoca, la libertà
rischia addirittura di diventare, nella pratica sociale,
un’antagonista della liberazione.
Nella
mia camera da letto campeggia un manifesto con una frase tratta da A
Vindication of the Rights of Woman di
Mary Wollstonecraft, parole che arrivano dal 1792: «È tempo di
compiere una rivoluzione nei costumi femminili, tempo di restituire
alle donne la loro dignità perduta e di renderle partecipi della
specie umana in modo che, riformando sé stesse, riformino il
mondo». Resto convinta che questo sia un monito importante da
considerare e, di certo, è stato un pezzo della visione femminista
del 2001, quando a Genova un mese prima del G8 oltre mille donne
provenienti da tutto il mondo si riunirono nell’evento PuntoG-Genova
genere globalizzazione per
avanzare la critica femminista al neoliberismo e la visione
ecofemminista per fermarne l’avanzata. Allora si diceva nelle
piazze che “questo mondo non è in vendita”, di certo si
intendevano soprattutto i corpi: a vent’anni di distanza non è
così più così certo, almeno per alcune.
Restando
sempre sulle parole (che nel 1955 Carlo Levi definiva «pietre», con
immagine quanto mai fondativa per chi fa cultura e politica) vorrei
fare un cenno al casus
belli provocato
dall’improvviso disagio nel pronunciare il sostantivo donna (al
suo posto sarebbe più corretto, si dice in alcuni ambienti per non
offendere, usare la locuzione persona
con le mestruazioni, già
adottata sulle confezioni di assorbenti in Inghilterra) e alla
difficoltà a nominare il femminile, una pratica che la maestra Lidia
Menapace diceva di primaria importanza politica perché «essere
nominate significa esistere».
In
alcuni ambienti femministi la soluzione trovata per la scrittura
sarebbe quella di usare il segno grafico schwa.
Peccato: avevamo da pochissimo iniziato a sessuare il linguaggio, a
nominarlo questo femminile così scomodo, a prezzo di fatiche immani
sia nelle redazioni giornalistiche così come nella scuola e nelle
conversazioni pubbliche, ed ecco che al neutro maschile patriarcale
che cancellava le donne si sostituisce una nuova forma di
obsolescenza, ma questa volta con la benedizione di alcune
femministe.
Rimando
al dubbio espresso qualche riga fa: come è possibile che
l’inclusione e la lotta contro la discriminazione risulti essere
strumento di rimozione delle donne e della differenza sessuale da
parte di pezzi del movimento femminista? E come è successo che
mettere al centro del dibattito politico la prima differenza umana,
quella sessuale, attira odio e persino persecuzioni, come nel caso
internazionale della scrittrice J.K. Rowling? Ecco, mi piacerebbe che
l’anno che verrà portasse più intelligenza collettiva creativa e
desiderosa di scambio, specialmente nel mondo femminista, che resta,
per me, il principale luogo per costruire una visione che ci metta al
riparo dai fondamentalismi e dalla “barbarie” che Rosa Luxemburg
temeva già agli albori del Novecento, e oggi così vicina.
Il
sito dell’autrice è http://www.monicalanfranco.it/
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